Corpo e Relazione nel Processo Gestaltico
di Mimma Turco
di Mimma Turco
Mimma Turco, psicoterapeuta, co-fondatrice e trainer della Scuola FGB, ha lasciato un’impronta profonda nel mondo della Gestalt-Bodywork. Il seguente intervento contenuto in “La creatività come identità terapeutica” – atti del convegno “II Convegno della Società Italiana Psicoterapia Gestalt”, tenutosi a Torino nel 2008 – esplora il legame tra corpo, relazione e processo terapeutico.
“Buongiorno a tutte e a tutti, comincio facendo qualche respiro, per non tagliarmi fuori dalle mie sensazioni di questo momento.
Sono Cosima Turco (Mimma) e lavoro con il corpo attraverso la pratica dell’Aikido, che è un’arte marziale giapponese, da quasi 40 anni e da un po’ meno come psicoterapeuta della Gestalt, ad orientamento corporeo. Faccio parte, come è già stato detto, del corpo docente della Scuola La Formazione in Gestalt-Bodywork di Ranzo (IM). Nella mia pratica integro la Gestalt con altre tecniche ad orientamento corporeo che vanno dal movimento, alla terapia Somatica-Lomi, alla Bioenergetica.
Presenterò alcune riflessioni e sottolineo riflessioni e mi auguro vari spunti, frequenti nella pratica quotidiana di terapeuta e formatore, legati al tema di questa tavola rotonda.
Alcune sono ovvie: l’incontro tra due persone è prima di tutto l’incontro tra due corpi, che pur coperti da abiti e maniere socialmente accettabili, manifestano, esprimono, scambiano informazioni, messaggi, alcuni espliciti (per esempio la stretta di mano), la maggior parte impliciti: sono a disagio, mi piaci, sto all’erta, posso fidarmi di te… ed io, attraverso il mio corpo, il più delle volte fuori dalla mia coscienza, rispondo e ne invio a mia volta.
Parlo quindi della relazione tra due esseri umani, quella interconnessione che in parte esula dal nostro controllo. Tutto ciò avviene anche nella pratica terapeutica e formativa.
Aggiungo due capisaldi fondamentali di cui si fa un gran parlare: la consapevolezza e la presenza.
La consapevolezza di ciò che sto sentendo fisicamente (calore, tremore, vibrazioni, dolore…), dove lo sento, quando lo sento, come lo sento; delle percezioni che mi arrivano e che scambio con l’ambiente: quello che vedo con i miei occhi, i suoni che ascolto con le mie orecchie, le percezioni tattili attraverso le mie dita, gli odori con il mio naso, il gusto che uso forse più metaforicamente oggi, ma di cui i vecchi medici facevano uno strumento diagnostico. La consapevolezza che le mie emozioni che nascono dal mio essere qui a parlare con voi, dei miei pensieri che attraversano fugaci la mia mente mentre mi concentro su cosa dire e/o non dire.
Per essere consapevole ho bisogno, in questo momento parlando, di essere presente contemporaneamente a me e a voi.
Sono presente quando abito il mio corpo, incarnata e radicata in esso. A volte mi sorprendo delle reazioni di chiusura e difensive di un cliente: braccia conserte, sguardo sfuggente, tensione sul viso, nonostante i tentativi che faccio per incontrarlo. Se porto l’attenzione anche a me, al di là del mio parlare, posso percepire per esempio la leggera rigidità del mio collo, il controllo dei miei movimenti, la poca naturalezza del tono della mia voce. Una mia cliente, allenata ad osservare, una volta mi disse: «Appena le ho detto questo, lei ha cambiato espressione, è diventata più dura». Aveva ragione lei.
Quando una persona arriva nel mio studio difficilmente porta il corpo con sé consapevolmente, lo adagia nella poltrona e parla dei suoi problemi. Del corpo ci si occupa se malato e si va dal medico o nella nostra cultura, così disturbata narcisisticamente, come un oggetto da modellare, secondo immagini culturalmente in voga, ma non da sentire come parte integrante, fondante di noi.
Lasciamo da parte che il terapeuta deve fare qualcosa per fare stare meglio il cliente che viene e paga e prendiamo in esame, senza sposarlo acriticamente come ogni tanto si fa con gli slogan, che la terapia è una cocreazione cliente-terapeuta diventa, secondo me, molto più importante la variabile tempo. Già parlare di processo mi evoca un coniugare il tempo. Diversi colleghi (Spagnuolo Lobb, Stern) nei loro scritti danno attenzione al tempo, come parte integrante del ciclo di contatto, come now moment, il momento giusto per fare la cosa giusta, il tempo di una seduta, di una terapia, il tempo tra una seduta e l’altra. Qual è il tempo per portare il corpo in terapia. Sono differenti per il cliente ed il terapeuta. Il terapeuta lo porta subito. Per esempio io cerco di giocare un piccolo anticipo aspettando il cliente sulla soglia per scorgerlo, uscendo dall’ascensore un attimo prima che si ricomponga per salutarmi. Far entrare il corpo del cliente consapevolmente in terapia è veramente un tempo sconosciuto, fatto prima di una parte di acquisizione del linguaggio dell’altro e poi…
Con alcuni la consapevolezza del corpo entra fuggevolmente, un inciso, quasi casuale che lascia la traccia di un segno di penna, il respiro è spesso una porta di ingresso non troppo stretta, soprattutto se soffrono di ansia, per altri è come educare nuovamente all’ascolto di sé e dell’ambiente, con l’introduzione di momenti ritualizzati all’interno della terapia (visualizzazioni, attenzione focalizzata).
Quello che è esplicito nel corpo è come si è strutturato, adattato creativamente, funzionalmente per sopravvivere. Le strategie fisiche sono una varietà enorme dalle tensioni muscolari, alle rigidità, alle stereotipie, ai sorrisi forzati, ai sintomi somatici; quello che è implicito sono la storia della persona, non quella raccontata, ma quella diventata una seconda pelle, rimossa, non più accessibile direttamente attraverso il verbale, il racconto, le esperienze vissute, le risoluzioni attuate, il retroterra culturale, gli introietti, le retroflessioni.
Partiamo dal presupposto ovvio che ogni relazione terapeutica sia unica, ne deduciamo che non possiamo appellarci a regole fisse per decidere come, quando, con chi utilizzare l’intervento corporeo in terapia. Ci sono clienti con cui non l’ho mai utilizzato. Avviene a volte con una richiesta indiretta del cliente («Dopo l’incidente sento questo braccio staccato dal corpo»), oppure il terapeuta può notare un cliente particolarmente egotico, desensibilizzato, pelle opaca, esangue, movimenti stereotipati. In questi casi posso offrirgli di lavorare con il corpo, come proposta che può accettare e, o rifiutare.
Il tempo di questa proposta è legato a fattori della relazione quale stabilizzazione, fiducia, anche la durata è variabile: può essere una seduta, più sedute, un ciclo di sedute, intervallate da altre più verbali. L’intervento corporeo rappresenta un cambio di marcia nella terapia, o usando un linguaggio matematico introduco una discontinuità, la funzione/processo cambia. E una discontinuità rischio, che in parte non dipende dall’intervento, dalla tecnica scelta, in quanto comporta una rottura di schemi di relazionarsi, di confluenza nella diade terapeutica, con lo svilupparsi di sentimenti ed emozioni di diversa natura: dall’imbarazzo, alla vergogna, all’eccitazione, ecc.
L’intervento più drammatico è quello di toccare, e contemporaneamente essere toccati, come nella terapia somatica-Lomi.
In un intervallo di tempo relativamente breve, ma non quantificabile, in rapporto alla durata di una terapia, cliente e terapeuta sono disposti a rischiare: la posizione, il cliente può stare seduto o il più delle volte disteso, il terapeuta deve muoversi dalla sua sedia ed avvicinarsi per poter stabilire il contatto fisico. Entrano in gioco le reciproche vulnerabilità. Il contatto diventa diretto con il corpo dell’altro ed ha come obiettivo di ristabilire il contatto energetico con il proprio corpo, dando attenzione alle sensazioni che emergono, senza immediatamente tradurre queste in concetti verbali. Viene messo in crisi il sistema: si pensa il corpo, si raccontano le emozioni (citando Ken Wilber).
Ritengo che toccare una persona, anche se nella sicurezza e contenitore del setting terapeutico porti a galla delle questioni delicate, legate alla vulnerabilità, all’abuso, e ci impone delle considerazioni etiche. È un approccio che non va usato per semplicemente smuovere una situazione stagnante e non per tutti i clienti.
Oltre una buona base di lavoro personale ed esperienza nella terapia della Gestalt, perché va insieme elaborato quello che emerge, occorrono training appropriati e padronanza delle tecniche utilizzate perché il corpo dà un accesso diretto al vissuto di una persona e per questo abbisogna di grande rispetto ed attenzione e responsabilità da arte del terapeuta di disponibilità, di fiducia e di responsabilità da parte del cliente.”
Mimma Turco – psicoterapeuta, co-fondatrice e trainer della Scuola FGB
Francesetti, G., Gecele, M., Pizzimenti, M., & Gnudi, F. (a cura di). (2010).
La creatività come identità terapeutica – Atti del secondo Convegno della Società Italiana di Psicoterapia della Gestalt – FrancoAngeli